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CHIOGGIA APPROFONDIMENTI

  • GUIDO AIROLDI
    Guido Airoldi (1977) è nato a Bergamo e vive a Verona. Nel 2002 si laurea all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. La sua attività artistica è orientata verso la pittura, il collage e la performance, con una particolare attenzione al recupero di immagini preesistenti. è stato finalista di The 4th International Arte Laguna Art Prize, esponendo nei prestigiosi spazi dell’Arsenale di Venezia. Qui ha vinto i premi Catch by the Eye, Save in the Heart e Koller Gallery Special Prize, ottenendo la possibilità di esporre a Budapest e a Londra. Già protagonista nelle affascinanti opere di Hains, Rotella, Tinguely e Villeglé, il celebre manifesto stradale strappato dai “ladri nella notte”, come ebbe a definirsi Mimmo Rotella, assume nell’opera di Airoldi uno spessore e uno stato esistenziale straniante permeato in tutti i suoi cicli: Animali recuperati, Vanitas, Danze macabre, Heimat, ecc. Airoldi fa un ulteriore balzo in avanti, come egli stesso ricorda: “le carte da manifesto che uso nelle Vanitas e nelle Danze Macabre sono dipinte dalla natura: muffe, bozzoli di falena, peli di pennelli, appunti degli addetti alle affissioni, film del muro rimasti sulla carta strappata”. Terra di nessuno, la carta ora si presta ad ospitare il mondo stesso pronto a concorrere alla creazione artistica che nasce da una lavorazione chirurgica del supporto mediante taglierini, squadre, pinzette, colle, solventi, garze, ecc. Solo in un secondo momento il chirurgo si trasforma in pittore selezionando attentamente i ritagli di manifesto conservati da anni per usarli al posto dei pigmenti: è la carta stessa a trasformarsi in colore e non più in superficie, permettendo ad Airoldi non di dipingere il mondo, ma con il mondo. Heimat pone il tema del luogo natio, indica il territorio in cui ci si sente a casa propria perché vi si è nati, vi si è trascorsa l’infanzia o vi si parla la lingua degli affetti. Heimat, patria, é la terra dei padri ma anche e soprattutto la terra del Padre, quella destinazione, quel destino celeste a cui più o meno consapevolmente aneliamo.
  • ALESSANDRA AITA
    Dopo aver studiato presso l’Istituto Statale d’Arte di Udine, ha frequentato un corso professionale di grafica e si è da subito dedicata alla carriera professionale. In seguito a brevi esperienze lavorative ha aperto il proprio studio operando nel campo della grafica pubblicitaria. Da alcuni anni ha intrapreso la strada dell’arte seguendo le orme del padre, anch’egli artista contemporaneo. Nelle sue realizzazioni riesce a trasmettere una forte energia espressiva che nasce da una profonda ricerca materica, da una nuova interpretazione dei suoi mezzi di lavoro professionale e da un’attenta analisi della società in cui viviamo. Ha sempre avvertito il bisogno di esprimersi attraverso l’arte e fin da giovanissima ha sperimentato l’utilizzo di diversi materiali e tecniche per poi lasciarsi sedurre dalla scultura e dal legno. “C’è una donna che si apre al mondo e cerca l’infinito. Il suo corpo è permeabile: il nostro sguardo lo trapassa eppure ne riconosciamo la forma. Alla terra questa donna è ben ancorata e le sue gambe paiono mutarsi in piante rampicanti che salgono e si intrecciano a trovare la luce. Anche il volto cerca il calore del sole e i raggi, illuminandolo, lo plasmano. Figura leggera, priva di ogni protezione, ostenta la sua fragilità. Retta e sicura sa di essere l’elemento di congiunzione tra terra e cielo; è certa che convivano in lei la materialità della carne e la spiritualità di sentimenti e ragione. Usa i piedi come radici, per ricordarsi che la terra la nutre ed è la sua casa, ma con lo sguardo cattura l’infinito per trovare l’energia della vita, il senso della sua esistenza. Creano il suo corpo quei legni frammentati, vissuti, raccolti e con amore salvati dalla loro naturale distruzione. Sono collegati e incastrati, vanno a custodire il vuoto, quell’impalpabile che caratterizza ogni persona, fatto di pensieri ed emozioni. Questa donna è l’unione tra pieni e vuoti, tra materia e spirito, tra quello che è e quello che potrà essere, è espressione simbolica dell’umanità”.
  • ANGELO ALESSANDRINI
    Dopo la scuola dell’obbligo si iscrive all’Istituto d’Arte di Siracusa dove si qualifica come Maestro d’Arte, continua gli studi all’Istituto d’Arte di Catania dove si diploma con ottimi voti. Viene selezionato tramite concorso e frequenta la Scuola dell’Arte della Medaglia presso l’ Istituto Poligrafico Zecca dello Stato. Giovanissimo vince il primo premio nazionale Città di Niscemi (CL) nella sez. Scultura. Viene selezionato e partecipa alla Biennale di pittura della Marina Militare Italiana tenutasi a Venezia nell’ottobre 2002. Partecipa a varie mostre e tiene una personale nel 2002 presso comune di Augusta. Frequenta il prestigioso corso di formazione in arte sacra per la liturgia, tenutosi nel 2004 presso l’istituto Staùros di San Gabriele dell’Addolorata (TE). Nel giugno 2005 partecipa alla mostra collettiva in memoria del pittore Remo Gardeschi a Moncioni (AR) dove riceve una menzione d’onore nella sezione pittura, e viene pubblicato sul mensile Arte Mondatori di giugno. Il tema dei cambiamento climatico e la relazione conflittuale dell’uomo con la natura. L’immagine dell’orso che attacca l’uomo è una metafora della reazione della natura agli effetti del cambiamento climatico, rappresentando la sua vendetta per il danno causato dall’uomo all’ambiente. L’immagine del ghiacciolo rosso che si scioglie nel pelo dell’orso rappresenta l’impatto del riscaldamento globale sulla fauna selvatica e sua sopravvivenza. La scultura suggerisce inoltre una riflessione sulla relazione dell’uomo con l’ambiente, mostrando come la natura possa rispondere in modo distruttivo, soprattutto per l’uomo stesso, quando viene sfruttata e abusata. L’opera invita a una riflessione sulla necessità di agire per preservare la natura e promuovere un futuro sostenibile.
  • ARMAN
    Nato a Nizza il 17 novembre del 1928, Armand Fernandez, conosciuto solo come Arman, è stato uno degli artisti di maggior rilievo nello scenario internazionale della seconda metà del Novecento. Cresciuto tra gli oggetti del negozio di antiquariato paterno, inizia a dipingere già a 10 anni. Dal padre impara la pittura a olio e la fotografia. Dopo aver incontrato Pierre Restany e Cesar nel 1960 firma il manifesto del Nouveau Réalisme, così definito da Pierre Restany, ispiratore e critico di riferimento del gruppo. Il movimento propone un ritorno al reale condotto mediante l’appropriazione e la manipolazione di oggetti di consumo e di scarto. Questa avventura passa attraverso le azioni dell’artista-creatore che taglia, smembra, sconquassa, dispone, accumula, ricompone. Arman trascorre la sua infanzia fra gli oggetti: la nonna colleziona bottoni, il padre è antiquario rigattiere e lui ha una passione particolare per i timbri. Più tardi, quello che attira la sua attenzione sono gli oggetti che, non appena utilizzati, vengono buttati. Per realizzare le “Accumulations” li assembla, per le “Colères” li spezza con la sua forza da Judoka, per le “Coupes” li taglia per ricomporli a modo suo. Arman desidera mostrare o meglio “far vedere” la poesia che ogni oggetto ha in sé – e che noi tutti non vediamo più grazie a degli interventi plastici. “Mi chiamo Arman. Dicono che sono scultore e pittore, ma io mi vedo piuttosto come ‘qualcuno che fa vedere gli oggetti.”
  • MANUELA BEDESCHI
    Nata a Vicenza, vive e lavora tra Verona e Bagnolo di Lonigo (Vicenza). Diplomata in Scultura e Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Verona, frequenta un corso di arte concettuale all’Accademia Estiva di Salisburgo tenuto da Roman Opalka e Gunter Uecker che cambia l’indirizzo della sua ricerca artistica, approfondisce grafica sperimentale alla Scuola e al Centro Internazionale di Grafica di Venezia. Presiede l’Associazione Culturale Villa Pisani Contemporary Art con la quale organizza Mostre di Arte Contemporanea. La sua produzione artistica si è sviluppata sia nel campo della scultura che della pittura, prediligendo sempre più, nel tempo, le installazioni e gli interventi ‘site specific’, sottolineando gli spazi con segni di luce. Manuela Bedeschi attraverso l’utilizzo del neon, medium che permette alla luce di farsi veicolo concreto della trasmissione del linguaggio visivo, è capace di trasportarci in ambientazioni di energia smaterializzata che riflettono su colore, luminosità, segno, forma e significato in una comunicazione fenomenologica poliedrica che conduce l’artista verso un’introspezione che ora investe lo spazio circostante.
  • BEPPE BORELLA
    Beppe Borella nasce a Bergamo nel 1972. L’iniziale lavoro di fabbro gli consente di approcciare il ferro come primo materiale di costruzione. Il contatto con il mondo dell’arte avviene grazie all’incontro col gallerista Stefano Fumagalli che gli svela bellezze e segreti delle opere dei grandi maestri dell’arte contemporanea. Ad attrarlo sono soprattutto le sculture, che accendono in lui un’innata capacità creativa oltre che tecnica. Doti che Borella ha modo di evolvere e perfezionare collaborando con Giuseppe Uncini alla realizzazione di alcuni grandi lavori in cemento e ferro. È proprio lavorando questi materiali che quasi per uno scherzo del destino si concretizza il fatidico incontro col marmo: vivo, energico, capace di proiettarlo nella sostanza di forme e superfici da modellare e levigare creando con istintiva forza scultorea giochi di luci e ombre. L’unione perfetta di manualità e creatività permette così all’artista di scolpire opere fantastiche, sinuose, ironiche e potenti che sembrano provenire dagli spazi siderali e all’improvviso dialogano con la Pop Art, cogliendo il significato più giocoso e accattivante del termine. Borella, pensando all’arte contemporanea come testimonianza del nostro vissuto, inizia una lunga riflessione che getta le basi sulla scultura romana all’epoca del Bernini e dei grandi artisti del passato: pensando alle diverse contaminazioni, influenze e soggetti che vennero loro commissionati, l’artista bergamasco porta alla luce le icone del suo vissuto e del nostro contemporaneo ricamandole attraverso la sua tipica vena pop in cui l’ironia gioca un ruolo fondamentale per la comprensione dell’opera.
  • MARIO CEROLI
    Il lavoro di Ceroli è scultura, pittura, disegno, creazione di oggetti, ambienti e scenografie. Ceroli è un artista poliedrico, mercuriale, versatile. Complesso si direbbe, come ogni artista, si, ma con quella straordinaria capacità di mescolare ogni arte. Difficile separare una scultura dall’aspetto pittorico, gli arredi dalla scultura e dalle immagini.
    La sua scultura è costruzione piuttosto che plasmazione, le forme sono concetti tangibili e mai astrazioni, si tratta quasi sempre di idee semplici, oggettuali, concrete. Nell’uso del bronzo, l’idea che ne risulta è di una serie di stratificazioni, di piani consequenziali, che non danno all’opera quel carattere di uniformità plastica, pur nell’ambito di un’opera armonica e sintonica. Rifuggendo quasi subito dai materiali della scultura tradizionale, in una collettiva del 1964 presenta lavori in legno grezzo, del tipo utilizzato per gli imballaggi; fonda così la propria riconoscibilità – su cui interviene con sporadici interventi di colore – effigiando oggetti d’uso quotidiano giungendo poi agli stereotipi di figure umane tra il 1964 e il 1965. Ceroli rinnova il linguaggio aulico della scultura, ne destituisce il valore “nobile” elaborando sculture con un recto e un verso, un double-face che nega il tutto tondo ma che giocando sui pieni e sui vuoti conferisce all’immagine un effetto volumetrico tale da contrastare il supporto. Nell’estate del 1966 la Biennale di Venezia gli conferisce un premio per Cassa Sistina, “architettura” praticabile dal pubblico, inaugurando quella stagione dell’arte italiana che sconfina nell’environiment, nel cinema e nello spettacolo. Nel corso degli anni Settanta, fino ai Novanta, “rivisita” opere di Michelangelo, Leonardo, Botticelli, Paolo Uccello, de Chirico, Goya e capolavori quali i Bronzi di Piace, senza per questo rinunciare all’uso di marmi policromi, vetro o bronzo. Ceroli compie un ritorno alle origini del fare, alle grandi matrici storiche che sono il punto di partenza della sua ricerca, non foss’altro perché nel lontano 1957 un viaggio ad Assisi gli rivelò l’arte di Giotto, “la sua pittura che da un’illusione di profondità, le sue figure schiacciate e compresse, come ritagliate nello spazio”, esperienza riconosciuta determinante per lo sviluppo delle sue sagome in legno. 1
  • GIORGIO DALLA COSTA
    Dalle opere su tela, alle incisioni fino alle sculture, il percorso di Giorgio Dalla Costa si snoda con un ritmo armonico, dove il filo conduttore è il segno: quel susseguirsi di sapienti movimenti che incrociando il supporto danno forma alla sua emozione. Un segno preciso, semplice ed elegante quanto potente, capace di marcare nel punto giusto e di sottrarsi con levità laddove la dissoluzione del pieno lascia spazio alla costruzione del vuoto. Nella scultura, il segno di Dalla Costa incontra e si accorda con la morbida Pietra di Vicenza in un flusso continuo di curve esterne e interne. Cesella gli atomi della materia svincolandola dalla pesantezza, concedendo alle correnti d’aria di insinuarsi tra le sue trame, regalando così ai manufatti una leggerezza di straordinaria resistenza. La materia sublima nella forma: indagata dall’artista come fonte inesauribile di energia e plasmata al punto che sostanza ed etere non appaiono inconciliabili né conflittuali. Le opere scultoree di Dalla Costa si sottraggono alla forza di gravità dialogando, nei pieni, con la luce e nei vuoti, con le insondabili profondità dello spazio. L’artista lascia a noi dunque il compito di seguire la realtà fluttuante di linee e incavi delle sculture, di osservare come la luce ne esalti la purità dei contorni levigati e sinuosi e di come l’ombra palpitante ne espanda i confini. Giorgio Dalla Costa di- segna la pietra avendo una visione certa, poi la attraversa con lo scalpello incidendo solchi, senza mai violarne la naturalità. Affidandosi a colpi sottili e taglienti, ritaglia gli strati del marmo lasciandone affiorare i profili sinuosi e vellutati. Il paradigma plastico di Dalla Costa, in conclusione, è innanzi tutto un profondo sentimento magico della vita, un concetto organico ed energetico della materia e dello spazio. Una sollecitazione intima a cercare dentro di sé, attraverso la manipolazione della materia, una dimensione atemporale, di armonia e di continuità, che dà ascolto alla voce interiore collegandola alle voci e ai flussi dell’universo, un rapportare quindi la vita ad una dimensione cosmica.
  • ENRICO FERRARINI
    Enrico Ferrarini, classe 1987 è diplomato presso l’Istituto d’Arte A. Venturi di Modena. Trasferitosi a Firenze dove consegue la Laurea di II livello in Scultura presso L’Accademia di Belle Arti di Firenze. La sua recente ricerca artistica si concentra nei processi e delle capacità percettive e sulla complessa percezione del tempo. Le sue opere sono presenti in collezioni private in Belgio, Germania, Italia, Irlanda, India, Polonia, Singapore, Turchia e UK. Ferrarini è in grado di proporre un’inedita prospettiva moderna per la sua arte di ispirazione classica. Le sue opere riescono a rappresentare, in maniera perfetta, le immagini del nostro tempo liquido, veloce, solitario, confuso.Figure solide ma che appaiono fluide e a tratti sfocate, inquieti esseri disperati, che trasudano emozioni tangibili, si possono sentire, toccare. Le sue sculture vive, palpitanti sono cariche di umanità, di sofferenza, di amore e di una presenza che coinvolge e commuove. Leggere le sue opere significa poter cogliere la polivalenza dei significati che nascondono, proprio come fragili e incompleti esseri umani, le sue sculture; ci sembra di vivere un’esistenza che non si riesce a comprendere fin nel profondo.
  • PIERO GILARDI
    “Spero di poter riunire, un giorno, tutti i tappeti che sto realizzando in un luogo largo e piano, racchiuso da una cupola informe e opalescente: in quell’ambiente rarefatto l’immagine di ogni tappeto comincerà a dilatarsi e deformarsi secondo un ritmo organico incomprensibile ma accettabile”. Tappeto-Natura di Piero Gilardi, è il sogno di una natura ideale, selvaggia e incontaminata, ma allo stesso tempo costruita, ricreata con un materiale smaccatamente artificiale, sintetico, come è il poliuretano espanso. Inizialmente l’idea di Gilardi era quella di creare dei veri e propri oggetti fruibili, dei paesaggi naturali portatili che ricreassero in ambiente domestico lo stupore che si prova davanti alla natura. Realizzata con materiali poveri e di uso comune, la sua è un’arte per tutti, democratica e, in quanto tale, politica. Pur nel suo realismo, la rappresentazione non tenta di camuffare l’origine artificiale dell’oggetto: la sensazione è quella di una natura prodotta in serie, a uso e consumo dell’uomo domestico. Eppure il processo di Gilardi è un processo artigianale, che minuziosamente ricompone una natura ideale. Ed è in questa sorta di dissonanza cognitiva che si attiva il dialogo natura/cultura e che lo spettatore si trova a riflettere sugli effetti dell’uomo sui sistemi ecologici. Gilardi ironizza: quel mondo ideale esiste solo nella plasticità del poliuretano e l’estasi che proviamo è a sua volta artificiale.2
  • PAMELA GRIGIANTE
    Consegue la Laurea triennale in Scienze della Comunicazione all’Università degli Studi di Verona. Nello stesso anno approfondisce la comunicazione dell’immagine frequentando un Master in Visual Merchandising a Milano. La necessità di un rinnovamento e la profonda passione verso la pittura, le ha permesso di conseguire la Laurea Magistrale in “Atelier direction. Mediazione culturale dell’arte”. Il desiderio di aprirsi a esperienze di respiro internazionale, l’ha condotta ad approfondire l’uso del colore negli ambienti e nel marketing a San Diego, California. Pamela prosegue nella sua ricerca artistica trovando conferme in esposizioni personali e collettive. Nel 2014, in occasione del Festival Verona in Love, Feltrinelli ha commissionato all’artista un lavoro che parlasse al pubblico del vasto tema dell’amore. È nato Domestic Love, corpo di lavoro esposto a Verona, Mantova, Brescia, Padova, Treviso e Mestre. Dal 2013, lasciando alle spalle la ricerca astratta, Pamela imbocca la strada della narrazione della quotidianità plasmata dalla contaminazione visiva scultorea di impostazione ready-made. La quotidianità è diventata un universo finito e infinito. Nelle opere di Pamela il senso di ogni parola si disperde tra oggetti, ritagli, insetti e l’arrendevole accoglienza del quotidiano. La Natura, dal canto suo, osserva indolente gli affanni dell’uomo: insetti distratti, rami, foglie accartocciate, arrivano quando le cose sono ferme da un po’, proliferando nell’immobilità della morte.
  • ANDREA MENEGHETTI
    Ombre, luci, paradigmi e soluzioni prospettiche: l’opera di Andrea Meneghetti dialoga con il mondo e viceversa. Classe 1977 espone per la prima volta nel 1998. Oltre vent’anni di ricerca che si declinano con il carattere distintivo del tratto inciso in un indiscutibile vortice di prospettive. Meneghetti è storia e contemporaneità allo stesso tempo, è forma pura nell’assenza di colore in un minimalismo che tende al nero o al bianco e che non ci lascia scampo. è profondità intelletuale di un mondo lontano e perduto i cui valori e retroscena sono fondamento della nostra civiltà. Il suo percorso e le sue assonanze ricordano Kentridge o Rashid Johnson, ma il suo sguardo è composto dalla luce comprimaria di uno spazio-tempo istantaneo ed immobile, pur essendo nel continuo movimento di chi guarda. Un artista puro come cristallina è la sua opera che non scende mai a compromessi con materiali che aprono a sfide continue nell’alternanza di una visione che si sviluppa in sagome e profili sensuali e profondi, intimi e pulsanti di chi si confronta sempre con l’essenza stessa dell’arte: la luce generata da un’ombra che si proietta nell’ambiente. Lavora con la lamiera in ferro Meneghetti, tagliandola e sezionandola con il laser prima di ricoprirla con gli smalti. Tutto dona ubiquità sensoriale ad una plasticità ferrea che ora sembra senza peso, ma colma di rimandi ancestrali grazie a linee di contorno che dipingono sulle pareti retrostanti tratti essenziali che legano passato, presente e futuro. Un continuo confronto che porta noi fruitori ad immedesimarci con figure femminili che diventano ora pretesto per l’indagine antropomorfa di una scultura in rapporto con sempre nuove soluzioni estetico-formali.
  • ALDO MONDINO
    Aldo Mondino è nato a Torino nel 1938, dove è morto nel 2005. Nel 1959 si trasferisce a Parigi, dove frequenta l’atelier di William Heyter, l’Ecole du Louvre e frequenta il corso di mosaico dell’Accademia di Belle Arti con Severini e Licata. Nel 1960, rientrato in Italia, inizia la sua attività espositiva alla Galleria L’Immagine di Torino (1961) e alla Galleria Alfa di Venezia (1962). L’incontro con Gian Enzo Sperone, direttore della Galleria Il Punto, risulta fondamentale per la sua carriera artistica. Importanti personali vengono presentate presso la Galleria Stein di Torino, lo Studio Marconi di Milano, la Galleria La Salita di Roma, la Galleria Paludetto di Torino. Tra le principali mostre si ricordano le due partecipazioni alle Biennali di Venezia del 1976 e del 1993, le personali al Museum Moderne Kunst – Palais Lichtenstein di Vienna (1991), al Suthanamet Museo Topkapi di Istanbul (1992, 1996), al Museo Ebraico di Bologna (1995), alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Trento (2000). Le sue opere appartengono alle collezioni permanenti dei più importanti Musei nazionali ed internazionali ed a numerose collezioni private. Gerusalemme è stata una tappa importante nel cammino artistico di Mondino perché lo ha portato a riscopre le radici ebraiche della famiglia di sua madre, riportando alla luce un mondo e una tradizione che possedeva solo interiormente e che da quel momento, attraverso la sua arte, poteva essere raccontata con la sua consueta ironia. La forma e il senso delle sculture di Mondino sono spesso generati e condizionati dalla miopia dell’artista che, non riconoscendo da lontano la sagoma degli oggetti finisce spesso per sconvolgerli, dando vita a lavori unici e in qualche modo magici. Durante il suo soggiorno a Gerusalemme si avvicina al Muro del Pianto e il suo sguardo si sofferma su una “strana pianta con dei fiori neri“. Solo avvicinandosi scopre che quei fiori in realtà altro non sono che dei cappelli appesi a palma, da alcuni rabbini. Al suo ritorno in Italia decide di realizzare Gerusalemme, scultura in bronzo che, riprendendo anche certe ascendenze dadaiste, riesce a far rivivere l’ebraismo attraverso immagini quotidiane, fatte di abiti e cappelli, esprimendo così la sua libertà anche davanti alla religione.3
  • ELENA PIZZATO KETRA
    Elena Pizzato Ketra sviluppa il suo percorso formativo all’Accademia di Belle Arti di Venezia, indirizzando la sua ricerca sul corpo e le modificazioni artificiali e sperimentando molteplici forme materiche e sistemi mediali. Frequenta Amsterdam, dove attraverso mostre e residenze approfondisce i concetti della sua ricerca. Empowerment femminile, inclusione sociale, coscienza del senso di sé sono i temi maggiormente affrontati dall’artista. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive, tra cui al Museo MADRE di Napoli, al MAM di Mantova, al Silesian Museum di Katowice (PL) e alla Stichting Artes di Amsterdam.Nel 2022 vince l’exibart prize nella sezione dedicata all’inclusione. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private, tra cui quella della Fondazione Solares per le arti e della collezione Sacchi. Elena Pizzato è cool, intrigante, a volte disarmante. Equilibrio nel disequilibrio del feticcio: in un mondo acido e spigoloso la realtà più rabbiosa ci è ora cucita addosso. L’artista lavora ai limiti estremi del minimalismo e del concettuale volgendosi rumorosamente ad una riflessione trasversale che confessa, senza troppe limitazioni, l’immensità di un’esistenza fatta di speranza, dolore, vita, morte, rabbia, protesta, gioia e paure. Un mondo che si declina in bambole, vampiri ed entità pseudomagiche che si trasformano in strumenti che strozzano il tessuto sociale grazie alla corposità del cuoio, plastica e immateriali taglienti. Ketra, se fosse un colore, sarebbe il fucsia: un colore suadente e penetrante dal sapore agrodolce la cui attrazione fatale mostra anfratti continui con una vita del tutto apparente. Il tirapugni, un’arma che indossata ha la finalità di potenziare la violenza del pugno, viene estrapolato dal suo contesto criminale per diventare una giostra a dondolo. Per bambine feroci.
  • MARIO SCHIFANO
    Mario Schifano, croce e delizia, estasi e abisso, colore ed essenza. La sua intuizione è diretta, immediata, geniale e capace di donarci quelle nevralgie costanti a cui solo la grande arte sa condurci. Perchè il nostro “sentire” viene sovente sconvolto dalle trame inossidabili di plasticità concrete in continuo movimento. Essenza e purenzza, anemia e tecnologia entrano di forza in una ricerca che da monocroma, torna a confrontarsi con il mondo e la natura. In queste palme leggiamo tutta l’infanzia di Schifano, di un uomo che ricorda la sua terra natia, la Libia; non solo la ricorda, ma la rievoca attraverso la vita che nelle oasi trova una possibile salvezza dopo l’aridità del deserto. Opere, dunque, come salvezza e ricordo espresse ora con dense e gestuali cromie, ora con asettiche mascherine in cicli reiterati senza fine in grado di penetrare all’interno del nostro sentire quotidiano. Progetto per Oasi ci mostra uno Schifano diverso, impegnato in una disciplina artistica che non gli è propria: la scultura. “…Le palme e le stelle diventarono una cosa che adesso definiremmo un’icona, un’iconografia degli anni ’60 e anche uno status symbol, per le case dei collezionisti. Chi non le aveva era considerato out. (In seguito) la palma diventò anche un multiplo di alluminio, una scultura alta circa 2 metri realizzata a tiratura limitata dagli artigiani di Trastevere, da Luciano il metallaro (…) Erano di ferro stagnato, di latta, era una serie di 100 esemplari con una base rotonda e un’incisione: Mario Schifano – Per costruzione di oasi. Poi c’era il numero progressivo…” 4
  • DARIO TIRONI
    Nato a Bergamo nel 1980, Dario Tironi ha ricevuto la laurea in scultura con il massimo dei voti all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano. Il suo è il mondo dell’inutilizzato raccontato in sculture antropomorfe. Un mondo fatto di rifiuti, scarti e oggetti desueti protagonisti della società dell’obsolescenza. Tonnellate di materiali che prima credevamo indispensabili diventano all’improvviso privi di senso e di interesse finendo in enormi discariche che, di fatto, sono segno tangibile della nostra civiltà. Come disse Edmund Burke: “gli uomini che non guardano mai indietro, verso i propri antenati, non saranno mai capaci di guardare avanti, verso i posteri.” Quella che noi oggi chiamiamo immondizia, un domani sarà la base per comprendere la nostra civiltà. Dario Tironi opera in tacito accordo con lo svolgersi dell’evoluzione umana riappropriandosi di tutto questo mondo di scarti donando nuova vita e dignità ad accessori, apparecchi tecnologici, giocattoli, bambole, elettrodomestici e gadget attraverso la poesia dell’arte. Il microcosmo di Tironi si trasforma in macrocosmo esperienziale verso un generazionale scontro ideologico tra coloro che cercano di prevenire la catastrofe globale e chi, di contro, insegue consumismo, produzione, finanza e mercati globali. Nella sua carriera Dario Tironi ha esposto in numerose mostre collettive e personali e le sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero.
  • MARCELLO TOMMASI
    La sua prima formazione avviene a contatto con l’attività artistica del padre Leone, scultore e dei fratelli Riccardo, pittore e Luigi, fonditore. Conclusi gli studi classici nel 1947 presso il Liceo “G. Carducci” di Viareggio, si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze e contemporaneamente frequenta lo studio di Pietro Annigoni disegnando dipingendo e progressivamente rivolgendo il suo impegno alla scultura. Inizia ad esporre nel 1951 partecipando alla “VI Quadriennale d’Arte” di Roma e quindi presenta la sua prima personale nel 1955 alla Galleria degli Artisti di Milano, a cui poi fanno seguito molte altrein Italia e all’estero. Da sempre la figura umana è stata al centro della sua ricerca artistica. Fin dall’età classica la resa naturalistica dell’anatomia umana è stata uno degli obiettivi principali di pittori e scultori di tutti i tempi. Tutta la produzione scultorea di Marcello Tommasi è una continua ricerca sulla figura umana, la quale viene interpretata secondo diversi registri stilistici, da quelli più classici e realistici ad interpretazioni maggiormente espressive. In questa figura di donna Tommasi si attiene su un’interpretazione piuttosto classicheggiante, soprattutto nella proposta di una torsione complessa e naturale fondata su una disposizione armonica ed equilibrata delle membra. Tuttavia l’artista tende a superare tale equilibrio con alcune forzature antinaturalistiche che deformano leggermente la figura rendendola complessivamente più espressiva e vibrante di vita. La superficie dell’opera infatti risulta essere quasi tremolante e palpitante di esistenza terrena e la stessa scultura si scioglie in una materia morbida.
  • EMANUEL ZONCATO
    Affascinato dall’informale di Alberto Burri, ha scoperto ben presto l’amore per la materia. Diplomatosi nel 1994 si è iscritto all’Accademia delle Belle Arti di Venezia, frequentando in un primo momento il corso di pittura; successivamente inizia un più soddisfacente corso di scultura presso l’Accademia stessa, imparando a conoscere la tridimensionalità artistica conseguendo il diploma nel 1998. L’immagine più ricorrente della sua produzione è il volto di una giovane donna, il cui sereno ripiegamento incanta e turba nello stesso tempo. Incanta perché esprime giovinezza e pace, turba perché racchiude in sé il mistero della vita. Nei modi di un’affettuosa dolcezza, essa parla il linguaggio di un’arcana bellezza. La testa femminile, perfettamente delineata nel blocco di pietra da cui prende vita, sembra sprigionare dalla chioma fluente pensieri in libertà. Il volto intersecato da un piano levigato che si oppone alla parte lasciata grezza, crea soggezioni di natura psichica oltre che visiva. È un’operazione diversa dall’”arte del levare”, ove materia e forma spesso rivelano un dissidio interiore. Una chiusa armonia governa queste figure, che il sonno protegge da contaminazioni esterne. Narcissism – like trae ispirazione dalla storia mitologica di Narciso. Uomo bellissimo che rifiutò l’amore della ninfa Eco. Per punizione fu destinato ad innamorarsi di sé stesso e della sua immagine riflessa nell’acqua, fino a morire affogato. L’opera vuole far riflettere l’osservatore su il narcisismo digitale della società contemporanea. Con l’arrivo del web e in modo particolare dei social network, si è assistito ad un assiduo uso di Immagini personali (selfie) per desiderio di trovarsi al centro dell’attenzione e ricevere il consenso degli altri (like). Quindi nello sguardo di un selfie, oltre il narcisismo, per incontrare Narciso.
  • MAHATMA MARCHI
    Mahatma nasce a Varese nel 1972. Di grande sensibilità, vive alla continua ricerca della sua forma di espressione artistica, attraversando così varie esperienze di espressione personale. L’approccio artistico avviene attraverso la musica, poi si susseguono esperienze diverse, dal costumismo, che vive in prima persona, al canto, fino ad approdare alla scultura in terracotta, fase di transizione fino a quando, nel succedersi degli eventi, incontra a Murano l’arte del vetro soffiato. Ed è qui che Mahatma si riconosce definitivamente come scultore. Nel processo creativo di Mahatma scultore, la ricerca della forma e l’apprendimento della tecnica si fondono insieme per permettere alla sua creatività di esprimersi in oggetti e sculture. Partecipa a numerose fiere dell’arte e manifestazioni nazionali ed internazionali vincendo il primo premio “Scultura arte Mondadori” nel 2005 esplorando le possibilità espressive del vetro e facendo dell’arte il proprio percorso di crescita personale, sia dal punto di vista professionale che dal punto di vista intimo e spirituale. Nel 2012 partecipa ad una collettiva presso la fondazione Luciana Matalon a Milano. Dopo avere compreso che la ricerca spirituale e la ricerca artistica sono la medesima cosa, nel 2019 Mahatma sente nuovamente la necessità di avvicinarsi alla scultura realizzando opere che hanno una consapevolezza nuova. Fra queste, ci sono le due opere presentate al concorso Ducato prize 2020. Dallo studio dell’acqua e delle sue forme a cui da vita sempre attraverso il vetro soffiato, Mahatma dà voce al grido degli inascoltati: i “V.I.P. very invisible persons”. Contemporaneamente, utilizzando altri materiali per esplorare nuove possibilità espressive, nasce “Power game”, opera in resina dedicata al fenomeno della globalizzazione e dei giochi di potere ad essa legati. Nell’opera “Fenicottero tra i cespugli” l’artista esplora, attraverso la scultura, il linguaggio comune dell’Orgami, proponendo l’arte non come una espressione di nicchia comprensibile a pochi esperti del settore, ma come espressione comune rivolta alla sensibilità di tutti.
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