Mambor

Les yeaux cahrgés è il titolo della mostra, organizzata dall’Assessorato alla Cultura della Città di Padova e curata da MV Eventi, presso la il Centro Culturale Altinate San Gaetano, in via Altinate, dal 22 novembre 2014 all’ 11 gennaio 2015, e dedicata al Maestro romano protagonista della Scuola di Piazza del Popolo assieme a Mario Schifano, Franco Angeli e Tano Festa; un artista poliedrico che si è saputo confrontare con la pittura, il teatro, la performance e l’installazione attraverso una ricerca artistica durata oltre 60 anni.
La mostra, già ospitata a Palazzo Tè di Mantova e Palazzo Reale di Milano, illustrerà circa 70 opere, con l’obiettivo di rendere partecipe il visitatore dello stile unico di Renato Mambor, fatto di segnali stradali, timbri con omini, ricalchi fotografici per riprodurre le icone della cultura popolare. L’uso delle sagome bidimensionali esclude la profondità e i tratti somatici delle figure, che vengono poi dipinte con il colore steso a campitura oppure usando un rullo per la tappezzeria.

L’artista.

Nasce nel 1936 a Roma. Esordisce nel 1959, a ventitré anni, assieme a Cesare Tacchi, in mostra con Mario Schifano. Nell’ambito dei serrati accostamenti d’avanguardia tra Roma (Schifano, Uncini, Lo Savio, Tacchi, Festa, Angeli), Milano (Manzoni, Castellani, Bonalumi), la Francia (Klein e il critico Pierre Restany, impegnato nel sostegno del suo “Nouveau R‚alisme”) proposti da Emilio Villa nella propria galleria “Appia Antica”. Segue il riconoscimento nel 1960 tra i “Premi di incoraggiamento” della Galleria d’Arte Moderna; le mostre collettive alla Galleria “La Tartaruga” di Plinio De Martiis (1963, 1964 e anni seguenti) che mettono a fuoco la riconoscibilità di un gruppo Mambor, Tacchi, Lombardo, con caratteri distinti rispetto ai protagonisti delle esperienze avanguardistiche romane del momento. Negli anni Sessanta, dunque, diventa parte integrante della “Scuola di Piazza del Popolo”, che fu come la risposta italiana, tra metafisica e futurismo, alla Pop Art americana. Sagome e segnali stradali, ricalchi fotografici, timbri con omini, tele eseguite con rulli da tappezzeria, costituirono la sua cifra di riduzione stilizzata delle icone della cultura massmediale. Ma l’interesse per il teatro lo portò a privilegiare ricerche d’ambiente, con strutture come “L’evidenziatore” (1967), strumento meccanico per agganciare oggetti e spostarli nel mondo dell’arte. Nel 1975 fonda il gruppo Trousse per perseguire “un teatro fortemente visivo ma attento alle dinamiche psicodrammatiche”. Torna alla pittura negli anni Novanta sviluppando temi della percezione (“L’Osservatore”, il “Decreatore”). Propone ampie narrazioni grafiche (Istituto nazionale per la Grafica, Roma 1998, Galleria Civica di Modena 1999). Ma realizza anche installazioni spettacolari, come i sei autobus svuotati, abitati ciascuno da un artista, per la mostra “Fermata d’autobus”, Roma 1996. Nella performance “Fasce di pensiero” (1998) ribadisce il senso generale del suo lavoro: “ritrovare dentro l’occhio lo sguardo che arriva alla coscienza”.

L’opera.
L’uomo, l’occhio e le cose nel mondo – A cura di Duccio Trombadori

Essendo dati: l’uomo, l’occhio e le cose nel mondo, proviamo a separare e poi tenere uniti nella mente gli elementi principali della percezione visiva. Scontornare, suddividere e dissociare, mettere in evidenza tempi e tecniche della immagine perché l’occhio sia libero di “ragionare a modo suo” come se la coscienza si potesse sciogliere in una più ampia e universale comunione fisica e psicologica. Nella tensione tra l’ordine e il disordine Renato Mambor tiene fede al principio che vedere è un atto creativo. E propone l’opera come un gesto fatto in pubblico : una esperienza da condividere con altri, per attraversare, riconoscere e recitare la grammatica speciale dei più intimi segreti del cosmo. Il quadro concepito da Mambor è uno spettacolo e un teatro dello sguardo. Equilibrio, perfezione e indifferenza possono fare tutt’uno se ci si limita alla superficie della contemplazione. Ma nel tentativo di “salvare il mondo” dalla confusione senza limiti (entropìa della forma organizzata) l’esperienza estetica non blocca la corrente della vita. Anzi. Mambor elabora un fitto gioco percettivo (armonie, disarmonie, dinamismi ed equilibri, stesure prescelte del colore e impulsi cromatici casuali) che persuade ed invita a pensare esaltando la visione nella scrupolosa indagine delle sue componenti. L’incanto di figure sagomate di profilo o di spalle, l’anestesia informativa del dettaglio, la ripetizione differente di immagini stereotipate, potenzia l’occhio che vuole “mettere a posto il mondo”. L’artista propone un passaggio controcorrente dal complesso al semplice, verso una emozione originaria, in un cosmo dove la natura e il genere umano non siano più in contrasto tra loro. “Le più grandi verità del mondo sono le più semplici -ammoniva il sapiente induista Svami Vivekananda- semplici come la vostra esistenza”. Nel riassumere i fasti della percezione dentro il quadrato e il cerchio di un rituale e simbolico “mandala”, Mambor indica il tracciato di un viaggio immaginario oltre la “pelle delle cose”. E allora andiamo pure tu ed io (“Let us go then, you and I”) come T.S.Eliot per una selva chiara di simboli e allusioni, banalità esemplari, indicative, foresta di concetti diffusi come note di una consueta melodia e pure così strana che attira e meraviglia…. Sul ritmo insonorizzato del “Canto d’amore di J.Alfred Prufrock” mi appare adesso tutto il valore della segnaletica di Renato quando suscita ricordi lievi e pure così intensi come lo stampo di una esperienza vissuta: messaggi introversi, tutti mentali e tanto più evidenti come una etichetta imposta alla vita che scorre, stilemi di una esistenza appena catturata dalla immagine e risolta in metafora, oppure schema di una percezione ordinatrice, misura d’ordine, e accurata “pulizia dello sguardo”. Renato compone freddi madrigali e ritaglia le figure che abbagliano lo spettro di una retina prensile e molto emotiva. E però di quella intensa emozione iniziale egli fa trapelare giusto il più asciutto profilo: così vuole il principio di una comunicazione chiara e discreta che tocca e persuade come il bulino di un orafo e il lapidario detto di un profeta.